Bisogna dirlo senza mezzi termini, da quando c’è il governo Draghi l’attacco ai lavoratori è divenuto alquanto spietato. Chi lavora sul campo sa benissimo che un clima politico che si mostra favorevole alle istanze delle grandi aziende si traduce in una maggiore aggressività da parte di queste nel condurre operazioni o trattative societarie sulla pelle dei lavoratori.

Questo è quello che sta accadendo adesso in Italia, la tensione è papabile, dai cambi appalto ai piani di riorganizzazione e ristrutturazione aziendale, passando per le cessioni di ramo d’azienda, l’obiettivo principale è quello della riduzione del costo del lavoro, e quindi del taglio degli stipendi di chi vi è coinvolto.

Si tratta di un viaggio senza una meta definita, tagliare tagliare tagliare, punto.

I cambi appalto sono il simbolo di questa pressione a tenaglia. Le grandi aziende committenti detengono il potere economico e commerciale, potendo decidere a chi affidare l’appalto, qual è la sua durata, il corrispettivo, ecc.

Ne deriva che le società di outsourcing – che assumono e pagano il personale addetto alle lavorazioni acquisite –, per intenderci società come Covisian o Almaviva, devono proporre una offerta vantaggiosa per ottenere la commessa, e quindi cercano di ridurre al minimo i costi del proprio personale. 

Ovviamente la committente è consapevole di questo, quindi sebbene la necessità di avere servizi di contact center sia costante nel tempo, ritiene estremamente conveniente stipulare contratti di appalto di breve durata – a esempio 3 o 5 anni – di modo tale che dopo poco tempo è in grado di riproporre il gioco al ribasso per chi intende aggiudicarsi le lavorazioni.

I lavoratori di Covisian e Almaviva conoscono benissimo il giochetto commerciale. Quelli di Almaviva hanno passato gli ultimi anni della loro vita lavorativa a subire il fenomeno dei cambi/rinnovo appalti, con accordi sindacali anche questi al ribasso, pur di evitare la prospettiva del licenziamento.

Per arginare il fenomeno, la politica ha deciso a un certo punto di dar vita alla cosiddetta “clausola sociale”, che pone una tutela di continuità occupazionale per i lavoratori coinvolti in un cambio appalto, ossia il passaggio della commessa alla nuova affidataria, qualora la società datrice di lavoro non abbia voluto o potuto rinnovare il contratto di appalto con la committente, magari perché il corrispettivo da questa proposta era troppo basso, o addirittura nemmeno  sufficiente a coprire i costi del personale.

In pratica, la clausola sociale prevede che il nuovo aggiudicatario debba assumere i lavoratori già impiegati nell’appalto presso il precedente fornitore. I lavoratori seguono le attività, insomma.

Sembra bellissimo, ma ci sono un po’ di però.

Il però principale riguarda la circostanza che anche il nuovo fornitore deve far quadrare i conti con il corrispettivo dell’appalto, quindi è facile immaginare che se il nuovo contratto di appalto è fissato a un prezzo più basso del precedente, chi deve farsi carico dei lavoratori deve comunque ricontrattare i loro stipendi al ribasso.

Ecco che entrano in scena le trattative sindacali sulle condizioni del passaggio dei lavoratori dal vecchio al nuovo appaltatore.

Nel nostro paese vengono condotte centinaia di trattative al motto di “meglio perdere qualche diritto che lo stipendio”. Per carità non va sempre così, ma va così nella maggior parte dei casi, e allo stato attuale anche per i sindacati che lavorano sul campo non vi sono molte alternative.

Questo è il girone infernale in cui sono intrappolati i lavoratori Covisian e Almaviva della commessa relativa ai servizi di contact center in favore di Ita (qui una mia intervista del 2016 quando Almaviva dichiarò miglialaa di esuberi).

Attenzione, il punto adesso non è nemmeno questo, perché lavoratori e sindacati hanno comunque nuovamente accettato – sebbene protestando – un ulteriore accordo al ribasso in conseguenza del passaggio della commessa da Almaviva, che gestiva i sevizi di contact center in favore di Alitalia, a Covisian, che invece ha ottenuto l’appalto sulle medesime attività direttamente da Ita, subentrata ad Alitalia dopo la cessione del ramo “Aviation”. Questo sempre pur di salvare i posti di lavoro.

A un certo punto però Ita e Covisian hanno iniziato a litigare, creando le condizioni affinché, nonostante l’impegno assunto con l’accordo, i lavoratori che erano impiegati nel contact center “Alitalia-Ita” diventassero esuberi. Parliamo di 543 persone.

Ecco in dettaglio cosa è accaduto e perché deve preoccupare tutti sindacalisti e lavoratori convolti nei cambi appalto.

Come sono state create le condizioni per il rischio di licenziamento di massa: una storia che si ripete

L’accordo in questione è stato siglato il 21 ottobre 2021 alla presenza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

L’accordo è stato fatto in virtù dell’art. 53 bis, comma 4, lettera b) del CCNL Telecomunicazioni, che prevede il subentro presso il nuovo appaltatore con la modifica delle condizioni di lavoro (diversamente la lettera a) del medesimo comma prevede la possibilità del passaggio dei lavoratori alle medesime condizioni e con le medesime modalità, quindi senza peggioramenti).

Oltre le consuete condizioni al ribasso, questo accordo è però caratterizzato dalla previsione del passaggio scaglionato dei lavoratori, sia per quanto riguarda il numero sia per quanto riguarda i tempi, quindi viene stabilito i lavoratori verranno assunti da Covisian, ex novo (cioè con un nuovo contratto di lavoro), nel periodo compreso tra ottobre 2021 e il 31 dicembre 2022, secondo precisi criteri e priorità di assunzione definiti nell’accordo stesso.

Senonché, cessata la commessa in Almaviva e resa operativa in Covisian in virtù del nuovo contratto di appalto con Ita, lavoratori e sindacati si aspettavano che questo accordo, seppur tristemente al ribasso, fosse portato a compimento.

Accade invece che i lavoratori sono tutti a rischio di licenziamento perché Ita e Covisian non si mettono d’accordo su alcune condizioni dell’appalto. Niente appalto niente lavoro, tutti a casa.

Ita accusa Covisian di avere messo in discussione i termini dell’accordo commerciale, perché a quanto pare Covisian avrebbe chiesto una maggiorazione del 64 percento del corrispettivo pattuito nel contratto preliminare, cosa che è stata vista da Ita come un ricatto. Ita accusa inoltre Covisian del fatto che sia stata la promessa di assumere i 543 lavoratori Almaviva impiegati nella commessa – quindi il rispetto della clausola sociale – ad averne compromesso la “profittabilità”.

Per contro, Covisian restituisce al mittente le accuse, dichiarando che sia stata Ita ad avere determinato l’interruzione del contratto, poiché ha fissato un corrispettivo inferiore al costo minimo del lavoro.

In questo scambio di accuse reciproche ci sono però delle certezze: il corrispettivo dell’appalto è al ribasso e secondo Covisian non riesce a coprire nemmeno il costo del lavoro; si è inoltre scoperto che le parti avevano siglato un contratto preliminare e non definitivo, e quindi che la trattativa sindacale è stata condotta su presupposti non proprio corretti.

L’accordo del 21 ottobre 2021 non citava infatti in alcun modo il contratto preliminare, quindi evidentemente nemmeno i sindacati ne conoscevano l’esistenza, il che potrebbe configurare una violazione degli obblighi sindacali di cui all’art. 53 bis del CCNL delle Telecomunicazioni.

Sindacati e lavoratori avrebbero veramente accettato un accordo basato su un contratto preliminare di brevissima durata, addirittura inferiore ai tempi previsti per il passaggio dei lavoratori in Covisian?

Sebbene il contratto di appalto sia un accordo commerciale privato per cui è facoltà dei contraenti diffonderne o meno il contenuto, è chiaro che i sindacati non possono condurre bene le trattative senza conoscere quelle informazioni basilari dell’atto da cui è possibile capire quali possono essere le reali garanzie per i lavoratori.

La lotta di classe nel XXI secolo

In genere, per esempio nelle comunicazioni sindacali in occasione delle cessioni di ramo d’azienda, le aziende comunicano ai sindacati anche la durata dei contratti di appalto, così i lavoratori possono rendersi conto di qual è la garanzia effettiva nel tempo di stabilità del lavoro, anche se poi non è proprio così perché non potendo avere accesso al contratto di appalto non è possibile venire a conoscenza di eventuali clausole “trappola”, come la risoluzione anticipata dal contratto, previsioni del corrispettivo al ribasso nel tempo e l’affidamento contemporaneo del medesimo servizio a più fornitori, tali da potere generare crisi  occupazionali.

Nell’accordo sindacale del 21 ottobre non vi è alcun riferimento alla durata del contratto, preliminare o definitivo che fosse.

Per il futuro l’invito ai sindacalisti che partecipano ai tavoli è quello di chiedere espressamente quali sono le caratteristiche e la durata dell’appalto, e se ci riescono copia dell’atto.

La vicenda ha ricevuto una tale attenzione mediatica e politica (fortuna che a Palermo ci saranno a breve le elezioni), per cui i rappresentanti di Ita e di Covisian sono stati convocati mediante audizioni parlamentari a riferire circa l’accaduto.

Con cauto ottimismo, pare infatti che si stiano aprendo degli spiragli per garantire i posti di lavoro, ma si tratta pur sempre di soluzioni momentanee, in attesa del prossimo cambio appalto, della prossima trattativa, delle prossime rinunce dei lavoratori.

Sarà sempre di più un gioco al “massacro” senza un intervento politico-normativo e un intervento sindacale più ampio: possibili aggiramenti della “clausola sociale” su larga scala

Deve essere chiara sin da subito una cosa: il principale attore di questa ennesima crisi occupazionale non è Ita e nemmeno Covisian, ma è la politica, che non solo non trova soluzioni contro il fenomeno delle crisi del lavoro indotte dai cambi appalti, per cui la “clausola sociale” in questa e in altre vicende ha mostrato tutta la sua debolezza, ma in questo caso specifico è bene ricordare che non ci si poteva aspettare altro visto che il governo aveva già dato a Ita un forte input a potersi muovere come meglio crede.

Il caso “pilota” Alitalia-Ita: il governo contro i lavoratori

Ricordiamoci infatti che appena qualche mese fa, mediante decreto è stato praticamente concesso a Ita di scavalcare le tutele per i lavoratori previsti dall’art. 2112 c.c. in occasione del passaggio dei lavoratori da Alitalia a Ita, per cui Ita anziché essere obbligata ad assumere tutti i lavoratori del ramo Aviation ha potuto selezionare in modo assolutamente discrezionale quelli da assumere e quelli da lasciare a casa, stabilendo essa stessa le condizioni per l’assunzione e creando una concorrenza spietata tra i lavoratori (ne parlo qui).

Il tutto è stato fatto cambiando una frasetta, ossia non citando più in decreto la sola possibilità di cedere “singoli rami d'azienda” (comma 4, art. 6, decreto legge n. 99 del 30 giugno 2021), che avrebbe appunto obbligato ad applicare l’art. 2112 c.c., ma aggiungendo la possibilità di cedere anche “parti di essi (di rami d'azienda)” o “singoli beni” (lettera a), comma 2, art. 7, decreto legge n. 121 del 10 settembre 2021), per cui invece non sono previste le tutele della norma (a meno che i lavoratori non fanno causa per dimostrare che in verità si tratta di ramo di azienda, ma questa è un’altra storia).

Ora, siamo seri, che possibilità c’era che Ita non imponesse le proprie condizioni al ribasso per i lavoratori del contact center dopo aver fatto il bello e il cattivo tempo con quelli Alitalia?

Anche qui abbiamo una certezza: il governo ha il potere di risolvere questa vertenza in un istante, se lo vuole.

L’impotenza della “clausola sociale” e la necessità di contrastare il fenomeno dell’outsourcing cambiando prospettiva politica

Non si può andare avanti ignorando questo declino, il caso Covisian-Ita è solo la punta dell’icerberg del deterioramento del benessere dei lavoratori causato dall’outsourcing.

Va preso anzitutto atto che la soluzione normativa della “clausola sociale” non risolve il problema delle crisi occupazionali indotte dalla frenetica spinta ai cambi appalto, ma semplicemente ne diluisce le conseguenze nel tempo.

Ampliando la prospettiva di analisi, la clausola sociale non funziona come dovrebbe perché si muove dentro un paradigma perdente, che ignora la vera mission del mercato dell’outsourcing, in special modo quello cd. labour intensive, che è proprio quella di far competere le società appaltatrici sul costo del lavoro, cosa resa possibile da leggi di mercato gerarchicamente ben più potenti della clausola sociale, per cui il livello di incompatibilità tra le stesse è tale da creare dei cortocircuiti, come nel caso Almaviva-Covisian-Ita.

Come già detto, le società committenti propongono contratti di appalto al ribasso e per brevi archi temporali, e così periodicamente è possibile spingere la competizione tra le società di outsourcing ai massimi livelli. In tal modo, il gioco al ribasso viene spalmato in più trattative, ovvero in più accordi sull’applicazione della clausola sociale, e di conseguenza la capacità di reazione dei lavoratori viene ridotta, depotenziata.

A lungo andare, è facile immaginare che nonostante le ripetute rinunce dei lavoratori che passano da un appaltatore a un altro, si arriva a un punto in cui l’obiettivo del mercato di estrarre ancora profitto da queste attività non può essere raggiunto mantenendo i posti di lavoro preesistenti.

Il business diventa più aggressivo, e si inizia a giocare a carte scoperte. Le imprese committenti continuano a spingere al ribasso, ma le società di outsourcing fanno fatica a tenere le pressioni che arrivano dal lato del cliente e dal lato opposto dei lavoratori. Vero, c’è la clausola sociale, ma se con il prezzo dell’appalto non si riesce nemmeno a coprire il costo del lavoro come si fa ad andare avanti.

Ci si può provare con cose tipo i contratti preliminari: si fa l’accordo sindacale e poi si vede. Il poi in questo caso è arrivato in fretta, Ita adesso non vuole cedere sull’aumento del corrispettivo richiesto da Covisian, che sostiene che così non riuscirebbe a coprire gli stipendi.

La committente Ita risponde per le rime dicendo sostanzialmente che il problema non è mica suo, quindi intanto ha deciso di reinternalizzare le attività e se non raggiunge un accordo commerciale con Covisian i lavoratori già impiegati nelle attività restano fuori.

Attenzione, tra l’altro la reinternazionalizzazione non preclude a Ita di potere affidare nuovamente l’appalto ad altri outsourcer – cosa che ha già dichiarato voler attuare e che ha fatto storcere il naso a Covisian – ed essendo quest’ultimo un passaggio dall’interno verso l’esterno, dunque senza un “cambio appalto”, non vi è clausola sociale da applicare, perché si crea una “discontinuità contrattuale” che esclude a monte i lavoratori Almaviva-Covisian.

Il rischio è che questa idea dei contratti momentanei e delle reinternalizzazioni come passaggio intermedio a successivi affidamenti in appalto venga replicata per aggirare la clausola sociale.

In pratica, e più in generale, chi detiene il potere contrattuale può creare le condizioni affinché la clausola di salvaguardia sia depotenziata o addirittura non applicata, e questo ha come effetto diretto la creazione di una sorta di gerarchia originaria, insormontabile, tra gli interessi di profitto della grande azienda e i lavoratori. Si genera così uno sbilanciamento arbitrario tra profitto e redditi da lavoro non sanabile con l’attuale assetto normativo.

Il perché dello squilibrio contrattuale tra le committenti e le società di outsourcing

A uno strato più profondo di analisi, occorre a questo punto chiedersi perché vi è un tale dislivello tra il potere contrattuale delle società committenti e quello delle società di outsourcing.

Insomma, se un imprenditore produce un qualcosa di cui un altro imprenditore non può fare a meno il corrispettivo dovrebbe essere fissato a un prezzo tale da consentire al fornitore di coprire non solo i costi del personale ma anche quelli dei mezzi di produzione, e ovviamente anche tale da garantire un buon margine di profitto.

Perché questo non accade nella maggior parte degli appalti di servizi ad alto contenuto tecnologico?

Il motivo è molto semplice, le committenti detengono i principali mezzi produzione, ovvero le infrastrutture tecnologiche, attraverso cui vengono governate e processate le attività. I lavoratori sono virtualmente inglobati in questo complesso processo produttivo. Questo avviene di frequente nel mondo dei call center, ma non solo.

Ecco perché il passaggio del business da un appaltatore ad un altro non comporta stravolgimenti per il committente, il quale sa bene che per evitare disservizi deve affidare le attività a più società di outsourcing, quindi se perde un call center poco male, ci sono altri operatori pronti a sostituirli.

Questo ovviamente non sarebbe mai potuto accadere se le infrastrutture fossero, come ci si aspetterebbe, in capo alle società di outsourcing che gestiscono il personale addetto.

Per anni accademici e politici hanno assecondato questo stato di cose sponsorizzando l’idea che ciò sia ammissibile in virtù del cosiddetto labour intensive, ossia l’idea che un gruppo di lavoratori, in particolare quelli impiegati in attività smaterializzate, possa di per sé rappresentare attività d’impresa autonoma, e quindi appaltabile, senza incorrere necessariamente nel divieto di appalto di manodopera.

Il labour intensive per appalti di questo tipo è in tal senso una falsificazione della realtà, una grossa cantonata che si è tradotta in una sofisticata forma di precarizzazione del lavoratore, non solo lavorativa ma anche esistenziale: il contratto di lavoro a tempo indeterminato diventa strutturalmente instabile e il potere sindacale viene neutralizzato da una strutturale precarietà della stessa impresa di outsorucing.

In materia di cessioni di ramo d’azienda, e per fortuna di recente anche in materia di appalti di manodopera, la giurisprudenza ha fatto notevoli passi in avanti, accertando i casi di violazione normativa qualora la cessionaria e l’appaltatore siano privi dei principali strumenti di lavoro informatici rimasti in capo alla cedente-committente.

Vi sono altre sfaccettature di questo fenomeno che vanno analizzate per mettere in atto una soluzione politica adeguata, capace di contrastare questa micidiale combinazione tra contesto normativo e contesto tecnologico favorevoli alla deriva del lavoro innescata dall’outsourcing.

Qui ho realizzato una indagine completa del fenomeno e del suo impatto anche per il futuro se non si interviene immediatamente. L’outsourcing al ribasso si è ormai diffuso a macchia d’olio su gran parte dei settori produttivi dove è possibile scindere apparentemente la gestione del personale dalla gestione delle attività in cui questo è impiegato.

La lotta di classe nel XXI secolo

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