(Articolo già pubblicato su www.lafionda.org)

In particolare nell’ultimo decennio, i lavoratori del settore bancario sono stati coinvolti in importanti processi di riorganizzazione e razionalizzazione, le cui ragioni risiedono prevalentemente nella rivoluzione tecnologica che ha travolto e stravolto l’organizzazione del lavoro.

Siccome l’obiettivo immutato di chi rappresenta il capitale è quello di trarre il maggior profitto dalle attività, e dunque dal lavoro svolto dai dipendenti, anche nel mondo bancario i sistemi produttivi tecnologici si sono evoluti di modo tale da garantire il raggiungimento di tale obiettivo.

Mentre prima era impensabile delocalizzare all’estero le attività svolte dagli impiegati delle banche – e quindi la gestione dei clienti italiani –, oggi si direbbe che è un gioco da ragazzi, o quasi.

In molti le chiamano app, in contesti più tecnici vengono più genericamente definiti software o applicativi, che altro non sono che ingranaggi di una complessa infrastruttura tecnologica attraverso cui è possibile processare in modo standardizzato e altamente controllabile le prestazioni svolte dai dipendenti, i quali sono chiamati a svolgere mansioni sempre più ripetitive, che quindi richiedono tendenzialmente meno know how rispetto al passato, che viene invece “acquisito” dalle macchine, ovvero dal grande cervello “virtuale”, di cui il lavoratore rappresenta l’ultimo anello della catena.

Questa è la verità nuda e cruda: la tecnologia lasciata a uso e consumo del capitale ha reso i lavoratori altamente sostituibili, anche con lavoratori esteri pagati un decimo rispetto a quelli italiani.

Senza andare troppo lontano, l’interscambiabilità può avvenire anche senza varcare i confini nazionali, mettendo in competizione i bancari con i lavoratori del terziario assunti da società di outsourcing, che riescono a garantire alle banche un abbattimento del costo del lavoro veloce e con poca o nessuna conflittualità.

A ciò si aggiunga la spinta all’uso dei servizi bancari on line, che non può non avere un impatto negativo sulla tradizionale organizzazione bancaria del lavoro, e dunque sulla tenuta dei posti di lavoro.

Mai arrendersi

Sembra una realtà ineluttabile, a cui nessuno può sottrarsi.

Invece non è così, noi viviamo in uno stato di diritto, in cui imprese e banche non possono fare tutto quello che vogliono.

Tutelare il lavoro e il benessere dei lavoratori è ancora possibile, perché in Italia vige un sistema giuslavoristico capace di arginare certe tendenze, ovvero certe anomalie dei sistema capitalista.

Una visione chiara di questa straordinaria prospettiva ce la regala quella che in futuro verrà considerata come una sentenza storica, non soltanto per i lavoratori del settore bancario ma anche per quelli di tutti i settori produttivi fortemente orientati all’uso della tecnologia.

La Cassazione dichiara illegittima la cessione di più di un migliaio di bancari

Qualche anno fa, una nota banca italiana ha ceduto una parte delle attività contabili e amministrative (Assistenza Filiali; Gestione Assegni; Gestione Bonifici; Gestione Carte di Pagamento; Gestione Effetti e Incassi Commerciali; Gestione Flussi; Indagini Bancarie; Logistica; Rapporti con i Corrispondenti; Servizi Operatività Rete; Promotori Finanziari; Amministrazione Titoli) che ha coinvolto più di mille lavoratori distribuiti in svariate sedi d’Italia.

Alcuni di essi hanno fatto ricorso alla magistratura del lavoro perché ritenevano che la cessione fosse illegittima, ossia realizzata in violazione dei requisiti sanciti dall’art. 2112 c.c., una norma che tutela i lavoratori contro operazioni societarie che hanno come fine non dichiarato quello di espellere personale.

Già al primo grado di giudizio (Trib. Siena 13 aprile 2015, n. 47), la magistratura ha infatti rilevato come l’esternalizzazione in questione fosse stata realizzata con una prospettiva dichiarata di “riduzione dei costi del personale”.

La Corte d’Appello (di Firenze n. 780 del 2016) conferma la decisione di primo grado: la cessione è illegittima e i lavoratori hanno diritto a rientrare in banca.

Di recente anche la Cassazione (n. 17195 del 2021), respingendo il ricorso della banca, conferma definitivamente – ovviamente con un giudizio di legittimità e non di merito – che i lavoratori avevano ragione.

Questa battaglia legale è durata qualche anno (anche se il diritto al reintegro è immediatamente esecutivo al primo grado di giudizio), ma alla fine i lavoratori hanno riottenuto in via definitiva il proprio posto con tutte le garanzie occupazionali preesistenti.

Quel che deve adesso interessare di questa storia non è soltanto il risultato finale, ovvero il reintegro dei dipendenti che hanno fatto causa, ma gli argomenti emersi e utilizzati dai giudici del lavoro per dichiarare illegittima la cessione dei lavoratori.

Cosa prevede la normativa che tutela i lavoratori dalle cessioni come forma di espulsione del personale

L’art. 2112 c.c. nasce come norma a tutela dei lavoratori, prevedendo che nei casi di trasferimenti di attività che coinvolgono lavoratori, questi non debbano subire una riduzione dei diritti in conseguenza dell’operazione societaria, e pertanto i rapporti di lavoro proseguono senza soluzione di continuità.

Tuttavia, essendo la norma interpretata come irrilevanza del consenso dei lavoratori affinché le cessioni possano avere effetto, questo strumento di tutela si è anche trasformato in un mezzo attraverso cui le aziende si liberano dei dipendenti senza accollarsi gli oneri e i costi delle procedure di licenziamento collettivo. In pratica, l’art. 2112 c.c. rappresenta una eccezione rispetto alla regola generale sancita dall’art. 1406 c.c. per cui si ritiene necessario il consenso del contraente ceduto.

Pertanto, affinché i lavoratori ceduti possano ritornare alle dipendenze della grande azienda, questi devono dimostrare che non sussistono i requisiti per applicare l’eccezione della non necessità del loro consenso, vale a dire che non sussistono i requisiti di legittimità dell’applicazione dell’art. 2112 c.c.

Quali sono questi requisti? Lo stesso art. 2112 c.c. – proprio per evitare che le aziende utilizzino la norma come un mezzo per liberarsi illegittimamente di personale – prevede che affinché l’operazione possa essere considerata valida è necessario che l’attività trasferita possieda due requisiti essenziali: la preesistenza (non è possibile in prossimità della cessione, anche mesi prima, assemblare pretestuosamente parti di attività e di personale con lo scopo di liberarsi di ciò che prima non aveva una sua identità) e l’autonomia funzionale (il ramo deve funzionare come una piccola azienda indipendente con personale e mezzi propri).

Le battaglie in tribunale vertono quindi spesso sulla necessità dei lavoratori di dimostrare che la cessione è fittizia. Cosa è emerso dalla battaglia legale sulla cessione bancaria Il caso giudiziario è stato deciso in primo grado da un magistrato del lavoro senese, il quale aveva rilevato come l’esternalizzazione in questione fosse stata realizzata con una prospettiva dichiarata di “riduzione dei costi del personale”, da attuarsi con una serie di strumenti, compresa la “Cessione Ramo d’Azienda del Back Office di Gruppo” (Trib. Siena 13 aprile 2015, n. 47).

Entrando poi nel merito dei due requisiti che deve possedere la cessione affinché possa essere considerata legittima, il giudice, così come poi confermato dalla Corte d’Appello di Firenze (n. 780 del 2016), ha posto l’attenzione sul fatto che anzitutto il ramo di attività non fosse preesistente, poiché la banca aveva ceduto soltanto una parte delle attività amministrative e contabili che al suo interno formavano invece un’unica organizzazione di mezzi e di persone.

Riguardo al requisito dell’autonomia funzionale, è stato accertato che i lavoratori ceduti continuassero a essere sottoposti alle direttive di lavoro provenienti dai responsabili e dai colleghi rimasti in banca, e che, cosa estremamente importante, continuassero a utilizzare gli strumenti di lavoro della banca, in particolare i suoi software, cosicché chi ha acquisito il ramo non potesse essere in grado di rendersi autonomo rispetto alla banca, che continuando a integrare i lavoratori nella propria struttura organizzativa virtuale di fatto non li ha mai veramente ceduti.

In pratica, è come se la banca non avesse mai veramente ceduto le attività, ma avesse soltanto esternalizzato parte del personale così da potere continuare a usarlo senza esserne più il datore di lavoro formale. I posti di lavoro e le attività non erano quindi scomparse, si era per lo più manifestata una cessione legale di responsabilità della banca datrice di lavoro.

 

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