dott.ssa Lidia Undiemi e avv. Ernesto Maria Cirillo

Il caso

Nel 2013 la società di telecomunicazioni F. cede alla società V.N. un ramo di azienda inerente delle attività di call center “customer care”, che ha coinvolto più di 500 operatori.

Molti di questi hanno fatto ricorso in Tribunale per chiedere l'illegittimità della cessione – il cui effetto è il reintegro del personale presso F. – ottenendo a distanza di 8 anni numerose sentenze favorevoli. Secondo molti giudici, infatti, il trasferimento non rispettava i requisiti sanciti dall'art. 2112 c.c., ossia la preesistenza e l'autonomia funzionale del ramo ceduto.

Qualche anno dopo la cessione, più di duecento lavoratori, che non avevano per tempo impugnato la cessione, decidono di fare causa contro l'asserita interposizione di manodopera (o appalto di manodopera), in virtù del fatto che contestualmente alla cessione, la società cedente e la società cessionaria avevano stipulato un contratto di appalto, attraverso cui è stata garantita la continuità delle attività in favore di F.

Anche in questo caso, l'obiettivo dei lavoratori ricorrenti è quello di rientrare in F., la cui assunzione è la sanzione imposta dalla legge all'appaltante-committente, nei casi in cui l'appalto non ha ad oggetto una reale organizzazione d'impresa ai sensi dell'art. 29 del d. lgs. n. 276 del 2003, configurandosi quindi come somministrazione illegale di manodopera, che può invece essere considerata lecita secondo le possibilità previste dall'art. 20 del d. lgs. citato.

Più nello specifico, l'art. 29 prevede che “il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell'articolo 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell'opera o del servizio dedotti in contratto, dall'esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell'appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d'impresa”.

Dopo alcuni giudizi negativi per i lavoratori, il 23 febbraio 2021 il Tribunale di Roma emette una sentenza favorevole, N. R.G. 4710/2018, secondo cui sussiste la violazione del divieto di appalto di manodopera, che può essere definita storica per le ragioni che verranno i seguito esposte.

Gli appalti “pesanti” e l'essenzialità dei sistemi applicativi nella verifica della natura interpositoria del rapporto di lavoro

L'elemento certamente più importante per il suo carattere innovativo che ha condotto il giudice del lavoro a considerare l'appalto non genuino ha riguardato la circostanza che l'appaltatore svolgesse le attività senza essere dotato degli strumenti tecnologici che ne consentono l'esecuzione – in particolare gli applicativi –, poiché utilizzava quelli forniti dalla committente.

Com'è ben noto agli operatori, ai sensi della normativa vigente, la circostanza che i mezzi di produzione del bene o del servizio utilizzati per l'esecuzione dell'appalto siano quelli della committente non è di per sé un requisito indiscutibile degli appalti non genuini (l'art. 29 ha eliminato la presunzione contenuta nella ormai abrogata l. n. 1369 del 1960).

Anzi, proprio in virtù di una interpretazione piuttosto elastica del contenuto della norma, i giudici sono stati per lo più propensi a considerare legittimi casi di appalti caratterizzati dall'uso di mezzi di lavoro virtuali che non appartengono all'appaltatore, considerandoli come appalti cosiddetti labour intensive o "leggeri", ossia caratterizzati dall'utilizzo prevalente di personale e non di mezzi di produzione, ridimensionando in tal senso la portata dei mezzi di lavoro smaterializzati nell'economia dell'appalto.

La sentenza del Tribunale di Roma in commento ribalta questa impostazione sul caso di specie, stabilendo che qualora l'appalto richiede l'impiego di strumenti di lavoro indispensabili per la sua esecuzione, e questi appartengono alla committente e non all'appaltatore, non importa che si tratti di beni virtuali per poter dar luogo ad un appalto cosiddetto "pesante", quindi caratterizzato dalla necessaria compresenza di personale e mezzi per essere considerato rispettoso del divieto di interposizione di manodopera: “... l'intero servizio è reso solo ed esclusivamente grazie a sistemi applicativi molto avanzati messi a disposizione dalla committente, l'organizzazione dei mezzi (immateriali) utilizzati per lo svolgimento del servizio appaltato (qualunque ne sia la provenienza) deve, per quanto anzi detto, comunque far capo all'appaltatore … un'organizzazione che consente un controllo in tempo reale da parte della committente di tutte le attività svolte”.

Sulla base di tali presupposti, il giudice romano affronta un altro tema molto importante, che in cause di questo tipo viene spesso alla ribalta: quanto ed in che termini i limiti posti dalla legge in materia di privacy – e per derivazione da altre regolamentazioni settoriali – possono giustificare l'ingerenza della committente nella verifica di un legittimo appalto ai sensi della normativa lavoristica. Ebbene, viene affermato che tali limitazioni non possono assumere un rilievo tale da giustificare l'interposizione di manodopera: “costituendo l'autonomia organizzativa nella gestione dei mezzi presupposto necessario ai fini della configurabilità di un genuino contratto di appalto, l'impossibilità di affidare in gestione detti mezzi all'appaltatore costituisce, piuttosto, un limite intrinseco alla possibilità di stipulare un contratto di appalto e non certo un argomento per giustificare l'inapplicabilità all'appalto di un requisito essenziale [l'autonomia funzionale] previsto dalla normativa di riferimento”.

La rigida procedimentalizzazione delle attività insita con l'uso degli applicativi

Altro aspetto essenziale per comprendere la portata delle motivazioni riguarda l'idoneità degli strumenti informatici di lavoro di dar luogo ad una minuziosa predeterminazione delle direttive di lavoro, stabilite a monte da chi ne governa i processi, in tal caso la committente.

I dipendenti dell'appaltatore devono infatti rispettare le procedure descritte nei manuali virtuali della committente, che altro non sono che la descrizione delle singole fasi di lavoro imposte dalla committente mediante gli applicativi, in modo altamente standardizzato e proceduralizzato, e quindi “è circostanza del tutto neutrale che le parti abbiano codificato nel contratto di appalto un modello di appalto di governance che non prevede comunicazioni dirette tra gli operatori Visiant e i dipendenti di Fastweb”. Anche se poi, come chiarisce il giudice, tali contatti sono stati comunque accertati.

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