APPALTI, TRASFERIMENTI E SOCIETARIZZAZIONI: COSA RISCHIANO I LAVORATORI

di Lidia Undiemi

Cosa è una societarizzazione?

La societarizzazione in materia di tutela dei lavoratori non è un termine propriamente giuridico, generalmente sta ad indicare una esternalizzazione di attività e dipendenti verso una società costituita ad hoc in occasione del trasferimento, possibilmente controllata proprio da chi cede il ramo d’azienda, a cui affidare (nella maggior parte dei casi) l’appalto sui servizi trasferiti. La societarizzazione presuppone dunque una operazione di outsourcing con tutte gli effetti giuridici del caso, anche in materia di tutela dei lavoratori.

Quali conseguenze per i dipendenti societarizzati/trasferiti?

La principale conseguenza da cui derivano “a cascata” tutte le altre è la modifica del datore di lavoro formale. Nel caso in questione, con un ipotetico trasferimento ex art. 2112 c.c. la grande azienda non sarebbe più il datore di lavoro formale – liberandosi così di tutti gli obblighi e gli oneri che ne derivano – poiché tale veste verrebbe assunta dalla società acquirente, anche se controllata dalla grande azienda. In tal senso, l’ordinamento giuslavoristico non prevede una tutela specifica per i dipendenti del gruppo nel suo complesso.

Quali sono i rischi?

Proprio in ragione del fatto che la grande azienda non sarebbe più qualificata come datore di lavoro formale, il destino lavorativo dei ceduti non è più legato tout court al business della grande azienda di telecomunicazioni, ma alla volontà da parte di quest’ultima – o di altri eventuali committenti/appaltanti – di mantenere la commessa e le relative condizioni economiche da cui dipende l’effettiva capacità della società acquirente di pagare gli stipendi ai lavoratori, a maggior ragione se questa viene costituita proprio in occasione del traserimento, quindi senza esperienza pregressa nel mercato e/o altre commesse.

In generale, in tali circostanze diviene semplice per il committente che cede le attività giocare al ribasso del costo del lavoro e delle altre garanzie occupazionali. Ricontrattazioni periodiche delle condizioni della commessa potrebbero spingere ad una graduale rinuncia dei diritti senza possibilità di esercitare quel potere di negoziazione che viene riconosciuto a chi è assunto da una importante realtà imprenditoriale. In assenza di specifiche garanzie, ben potrebbe il committente, magari qualche anno dopo la cessione, trasferire l’appalto ad un’altra società i cui dipendenti godono di tutele inferiori.

Cosa prevede la legge a tutela dei lavoratori?

Le principali regole a difesa dei dipendenti trasferiti sono due, e devono essere fatte valere in sede di giudizio.

In entrambi i casi un parere favorevole della magistratura del lavoro prevede come il reintergo (la riassunzione) dei dipendenti ceduti/appaltati presso il precedente datore di lavoro.

La prima forma di tutela riguarda l’art. 2112 c.c., per effetto del quale i lavoratori possono essere trasferiti senza il loro consenso, ma soltanto se il trasferimento avviene in presenza di specifici requisiti, in primis la “autonomia funzionale” del ramo di attività ceduto.

Se i lavoratori dimostrano in giudizio che in concreto le caratteristiche richieste dalla legge non sussistono, possono chiedere di far dichiarare illegittimo il trasferimento poiché, al di fuori dell’applicabilità del 2112, sarebbe necessario il consenso del lavoratore in base alla regola generale di cui all’art. 1406 c.c.

La seconda riguarda invece la fattispecie di appalto illecito di manodopera ai sensi dell’art. 29 del d.lgs. n. 276/2003, per cui è prevista una tutela nel caso in cui il datore di lavoro (imprenditore) formale non coincide con quello effettivo. Qualora l’appaltatore assume, in concreto, la veste di mero interposto lasciando che sia il committente ad esercitare effettivamente il potere di direzione e di controllo sui dipendenti e sull’attività esternalizzata, è possibile ottenere in giudizio l’accertamento dell’illiceità dell’appalto ai fini lavoristici, da cui consegue l’obbligo di (ri)assunzione in capo al committente. In questo senso (e tenuto conto delle particolari differenze), la sanzione prevista nel caso di interposizione illecita di manodopera è identica a quella prevista nell’ipotesi di illegittimità del trasferimento di ramo d’azienda, i dipendenti ottengono il diritto a (ri)ottenere il posto di lavoro presso il cedente-committente.

Sino a che punto un accordo sindacale può rappresentare una “reale” tutela?

La prassi dimostra che gli accordi possono essere disattesi dalla formula stessa che viene utilizzata nel fornire la garanzia, ad esempio quando le parti si impegnano a mantenere l’appalto per 15 anni e invece stipulano un contratto di servizi in cui è prevista la possibilità di recesso anticipato, o altre disposizioni che fanno venir meno la durata dell’accordo, o le relative condizioni economiche da cui dipende l’effettivo mantenimento dei diritti. E’ pertanto necessario che i lavoratori valutino bene la reale valenza dell’accordo.

Si tenga conto che l’obbligo di “mantenere i diritti” all’atto del trasferimento ex art. 2112 c.c. è previsto dalla legge e non può essere bypassato in sede di contrattazione sindacale. L’aspetto per certi versi più problematico rispetto all’obbligo in questione potrebbe essere la cd. armonizzazione dei diritti, nel caso in cui la società acquirente applichi un contratto collettivo differente da quello vigente presso il venditore. Se la società che acquisisce il ramo di attività è controllata da chi lo cede il contratto resta il medesimo. In tal caso, il problema potrebbe porsi se successivamente la controllante vende le quote della società nuova datrice di lavoro, determinando il tal modo la fuoriuscita dei lavoratori dal gruppo, in favore di una società acquirente che applica un altro contratto collettivo.

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